“Hai 5 minuti prima della catastrofe.
Che cosa ti porti via?”
Ecco la fonte di ogni sofferenza umana: considerare permanente ciò che è per sua natura perituro.
Antony De Mello
Siamo abituati a vivere pensando di avere un tempo infinito a disposizione. Come se la fine non ci riguardasse, non fosse parte della nostra vita. Un concetto che si è fossilizzato nella cultura moderna occidentale, ma che, in modo sempre più conclamato sia dalla scienza, che dalla spiritualità, ci impoverisce spingendoci a un inganno: usiamo parte del tempo che abbiamo a disposizione per “sopravvivere” e la parte restante di quel tempo a distrarci dalle pene di quella sopravvivenza.
Non si può vivere pienamente se non nella consapevolezza della fine.
Saggio
La fine è necessaria a una trasformazione. Chi ha il tempo contato, riesce ad attribuirgli un valore vero, nuovo, più pieno, sfrondandolo dal superfluo, dall’inutile, dalla distrazione fine a se stessa e quindi da tutte le sofferenze che ne derivano. In sostanza riesce a essere felice, almeno per il tempo che gli rimane, ma avere un preavviso per “prepararsi” ad una possibile fine imminente è un’opportunità che non capita a tutti. Un tempo questo preavviso non avrebbe assunto tanta importanza, perché la morte non era un tabù, bensì traguardo ben presente nell’esistenza universale, evocata e simulata attraverso iniziazioni che avevano esattamente questo scopo: prepararsi alla fine per esserci pienamente.
Oggi invece un tale annuncio potrebbe essere considerato come una fortuna, una grande occasione.
Se il tempo concesso è di soli cinque minuti, immagino che il panico e la paura prendano il sopravvento. Allora si corre al riparo, come si può, assicurandosi di salvare qualcuno o qualcosa che si ritiene indispensabile o necessario o più caro di noi stessi. Questo immagino accada in una situazione reale come quella che vivono i palestinesi.
In buona sostanza si scappa. Da cosa? Dalla morte.
Non è quindi diverso da quello che realmente facciamo tutti i giorni. Abbiamo solo più tempo. Un tempo infinito, si pensa comunemente, e quindi non ce ne accorgiamo. Poi quando quel momento arriva, perché questo è certo, che arriva per tutti, l’unica cosa che ci è concessa è affrontarlo. Chi si sarà preparato, potrà viverlo a pieno, chi ne avrà paura, lo subirà, soffrendo, così come probabilmente avrà vissuto.
Dunque vorrei dedicare questi cinque minuti al pensiero della fine. Provare a dedicargli almeno cinque minuti del nostro tempo. Cosa lasciare? La pretesa di continuare ad esserci. Cosa prendere? Nulla. Niente di niente. Provare, per almeno cinque minuti ad invertire ciò che meccanicamente facciamo tutti i giorni.
A teatro la vita si condensa appunto, quando è buon teatro, e anche un tempo breve può dilatarsi e portarci altrove. Il tentativo sarà proprio quello di portare lo spettatore altrove, non attraverso un approccio intellettuale o mentale, ma emotivo, ambiziosamente percettivo, e di farlo attraverso l’opportunità che solo il teatro offre, quella dell’incontro.
di Roberto Capaldo
con
40 spettatori alla volta
produzione
Wonderland Festival 2017