JOY

Performance di improvvisazione ad oggetto

Joy è uno spettacolo grottesco dove l’assurdità viene presa come paradigma del vivere quotidiano e viene utilizzato come incontro col pubblico per condividerne ironicamente le paure piu’ banali. E’ uno spettacolo al limite del performativo nel quale si alternano parti di composizione istantanea a parti più strutturate. Si svolge a stretto contatto con lo spettatore. Lo spazio scenico è, infatti, indiviso. Solo una serie di neon delineano delle tracce di scena che viene più volte rimodellata nell’evolversi della performance che ingloba in ultima battuta lo spettatore.

di e con
Roberto Capaldo
Davide D’Antonio 

produzione
Residenza Idra
con il sostegno di Regione Lombardia
progetto Next

Rassegna stampa
Angela Villa – Dramma.it

Spettacolo che, grazie alla gioiosa e divertente performance di Davide D’Antonio e Roberto Capaldo, continua il percorso di sperimentazione nel solco delle nuove drammaturgie, nuove forme di espressione di contaminazione, tra generi differenti ed elaborazioni lessicali. Il risultato è soddisfacente, un allestimento agile e dinamico che scorre rapidamente e in modo imprevedibile, fino alla sorpresa finale. Tra miasmi personali e un breve percorso al buio, arriviamo in una piccola stanzetta. Non c’è confine in Joy, non c’è palcoscenico, né sipario, tutto si svolge in uno spazio comune. Uno spazio pieno di oggetti di ogni tipo e di ogni genere, alcuni sporchi e schifosi. Oggetti abbandonati, ammucchiati, ammassati …Quasi una discarica. Sedie e sgabelli al centro della scena, se vuoi sederti devi abbandonare anche tu un oggetto e raccontare il tuo legame affettivo. Joy è una performance originale fatta di clownerie, teatro dell’arte, mimo e improvvisazione, tutto imbastito e cucito ad arte, per riflettere sull’abbondanza di una società che accumula oggetti inutili che intasano le nostre vite. Ma attenzione…nulla è così scontato. Anche gli oggetti più brutti raccontano qualcosa, si crea, così, una trama sotterranea, una rete invisibile, perché gli oggetti parlano di noi e degli altri. Ogni forma è simbolo di qualcosa di più profondo che va al di là e si collega con infinite altre realtà che solo la percezione del soggetto può individuare. La performance dei due giovani attori racconta anche questo: ricerca dei significati emotivi e delle sensazioni che partono dagli oggetti, il profumo il tatto, la vista il gusto, i suoni. Capaldo e D’Antonio, bravissimi nel saper cogliere gli spunti che arrivano dal pubblico, ci stimolano a cogliere queste sensazioni, a viverle. I due performer interagiscono con il pubblico, uno vuole accumulare più oggetti possibile, l’altro vuole distruggere tutto. Il confronto/scontro cresce sempre più, fino ad un sorprendente finale. Riprendendo la lezione di Baudelaire, che conosceva bene il significato intrinseco degli oggetti, i due artisti agiscono sul pubblico, e il pubblico reagisce.

Ogni sera uno spettacolo nuovo. Coinvolgimento ed empatia, ricerca di contatti e complicità, di sguardi, che diventano trampolino di lancio per una struttura drammaturgica brillante e poetica caratterizzata da poche taglienti battute che rimbalzano verso il pubblico per cogliere il significato profondo della parola felicità. Dialogo fisico, emozioni, ma soprattutto il saper ridere, distinguono l’uomo dalla bestia. Troppo spesso tendiamo a dimenticarlo.

Luisa De Montis – Il Giornale.it

Due performer. Uno vuole accumulare più oggetti possibile, chiedendoli al pubblico, l’altro si vuole sbarazzare di tutto. I due attori, l’accumulatore (Roberto Capaldo) e il suo “oppositore” (Davide D’Antonio) si confrontano in un dialogo serrato che coinvolge costantemente il pubblico, direttamente chiamato in causa come protagonista attivo in un contesto drammatico e paradossale. È proprio l’assurdo e il grottesco il tema centrale di Joy. In una dimensione assurda e grottesca avviene, infatti, il confronto che arriverà ad una rivelazione inaspettata, tra chi vive gli oggetti come estensioni indispensabili della nostra fisicità e indispensabili per il nostro benessere e chi, invece, li ritiene oltre che inutili, dannosi rispetto ad un vivere sano.

Come sopravvivere alla volontà di accumulo? Come può l’uomo continuare a vivere

serenamente in un universo in cui l’accumulo di materia porterà all’implosione? Come possiamo relazionarci agli oggetti che quotidianamente congestionano le nostre vite? A queste domande il pubblico è portato a rispondere con un coinvolgimento diretto e appassionato che lo trasforma nel giudice di questo serrato confronto. Ed è proprio attraverso gli oggetti che avviene il dialogo fisico ed emotivo con il pubblico fino alla loro distruzione. Perchè, questo ci insegna Joy, è proprio tale la natura paradossole e assurda degli oggetti: servono tanto da non servire più. Fino ad arrivare a riscoprire il senso profondo della gioia del vivere quotidiano.

Giulia Romanin Jacur – Lavoro culturale.org

Quando si decide di fare uno spettacolo ai margini del grottesco, utilizzando l’esagerazione, il gesto portato alla sua esasperazione comica, può capitare che se succede realmente un imprevisto, quest’ultimo venga fagocitato dallo spettacolo, accolto dal pubblico come una finzione, può capitare dunque che entri in qualche modo a far parte della performance. È proprio quello che è successo la sera del 22 giugno alle Fonti di Pescaia durante lo spettacolo Joy: l’attore Roberto Capaldo a pochi minuti prima della fine dello spettacolo, mentre il suo personaggio attentava per la terza volta alla vita del compagno di avventure (Davide D’Antonio), si è trovato a far fronte ad un “problema tecnico”: ha avuto un incidente ad una spalla, e lo spettacolo si è dovuto interrompere. Ma il bello è stato che in quel momento e per i minuti seguenti buona parte del pubblico presente, compresi gli operatori, è rimasto sospeso in quella zona grigia che si trova tra realtà e finzione: non era possibile capire se l’incidente facesse o meno parte dello spettacolo.

Un finale a sorpresa per tutti dunque, anche per gli attori. Il fatto che ci siano stati quei minuti di indecisione tra il pubblico fa pensare che lo spettacolo sia realmente riuscito, quell’esagerazione era tanto credibile da aprire la storia a diverse soluzioni. Chissà che direzione avrebbe preso o prenderà in una prossima replica questo spettacolo, in conseguenza a questo imprevisto, materia succulenta per chi lavora con l’improvvisazione, e in particolare per uno spettacolo come questo, che è stato pensato come work in progress, che subisce una metamorfosi di volta in volta a seconda dell’interazione col pubblico e dello spazio in cui viene performato.

Uno spettacolo che di per sè è un gioco grottesco, gioca infatti con le reazioni del pubblico, indaga il limite tra la vita e la morte, porta all’esagerazione e all’assurdo il tema di quello che è necessario e vitale per un individuo e quello che non lo è. Joy appare una performance dove il concetto dell’attaccamento alle cose viene preso e portato all’assurdità. Parla appunto della nostra ossessione per il possesso degli oggetti, che potrebbe portarci ad attaccarli col nastro adesivo al nostro stesso corpo, proprio come fa provocatoriamente uno degli attori in scena. Questo attaccamento si può manifestare come volontà di distruzione delle cose o volontà di accumulo, due declinazioni della stessa ossessione, rappresentata dai due personaggi in lotta sulla scena: il primo personaggio è quello che vuole qualsiasi tipo di cose e minaccia il pubblico con una pistola, il secondo è quello che le distrugge, martello alla mano. Il primo si presenta in scena e sussurra all’orecchio delle persone tra il pubblico parole che inizialmente appaiono senza significato: -Scusi, Lei, ce l’avrebbe un piccolo oggettino da darmi?-, in cambio di un oggetto personale concede una sedia di plastica o uno sgabello; questa cortese richiesta nel corso dello spettacolo si declina in una minaccia con tanto di pistola a cui chiaramente l’ostaggio scelto tra il pubblico non si può sottrarre, quest’ultimo deve rispondere anche all’interrogatorio sul perchè della scelta di quell’oggetto e sul legame affettivo che lo lega ad esso. Cellulari, sciarpe, borse, chiavi della macchina, pezzi di pizza, birre, si vanno a sommare al mucchio di cose che i due compagni già possiedono e contribuiscono a creare una scenografia alquanto caotica e disordinata. L’altro personaggio invece ha l’obiettivo di distruggere le cose che il compagno ha collezionato, farle a pezzi, e per questo viene sottoposto a violenze da parte dell’altro.

Lo spettacolo è costituito da un crescendo di violenza tra i due personaggi, che va di paripasso con un aumento dell’energia sulla scena, e proprio nel momento in cui ha raggiunto il suo massimo di energia e di aspettativa nel pubblico, si interrompe. Rimane senz’altro il desiderio di sapere come termina lo spettacolo, anche se lasciarsi suggestionare dalla performance e dal suo finale può saziare comunque lo spettatore.

Sergio Lo Gatto – Krapp’s Last Post

“Joy”, una performance estratta da uno spettacolo più grande, appena reduce da una presentazione in lingua inglese al festival di Istanbul. “Grottesco” è l’appropriato aggettivo usato nelle note di regia per questa curiosa performance che potrebbe essere di strada e che gioca con due caratteristiche fondamentali dell’essere umano e del suo vivere: il paradosso e l’attaccamento alle cose materiali.Il primo tema è una declinazione filosofica, uno status quo in cui i performer Roberto Capaldo e Davide D’Antonio si calano fino alla gola e dove restano, caparbi, fino alla fine, affollando l’ambiente con la rappresentazione più immediata della seconda istanza, l’attaccamento. Accatastati in una disordinata e coloratissima montagna che sa di installazione alla Biennale, una quantità insospettabile di oggetti di ogni natura. Pupazzi, ombrelli, vecchi giocattoli, un Commodore 64, un joystick, peluche, bidoni della spazzatura, telefoni cellulari, scatole e sgabelli rubati al teatro stesso. Il tutto ammassato ai piedi di quello che sembra essere un ibrido tra un chiosco e una baracca di burattini, addobbata con un’insegna luminosa scorrevole che passa in rassegna unità di peso e quantità minime, ingredienti per la giusta dose di materia da impiegare nel cosmo.

L’azione prende il via da una telefonata di uno (Capaldo) all’Istituto di Astrofisica, dalla quale ci si aspettano risposte a domande essenziali sul senso della vita. Da sotto a un cumulo di ciarpame emerge l’altro (D’Antonio), personaggio muto che sembra scappato da un film dei fratelli Marx. Il senso della performance diverrà presto l’interazione tra gli attori e il pubblico, attraverso – va da sé – gli oggetti.

I due attori contrattano con gli spettatori seduti per terra perché cedano in prestito un proprio oggetto in cambio di una sedia o di uno sgabello. E allora ecco che nel mucchio finiscono effetti personali di ogni genere: chi si sfila un maglione, chi affida la borsetta, qualcuno fa a meno del cellulare, qualcun altro dell’ombrello.

E cresce il divertimento, complice l’ottimo ritmo e la simpatia di Capaldo e D’Antonio, gustosa coppia comica divisa tra mimo e nonsense humour. Finiranno a inventare per ciascun oggetto una storiella, nell’ansia di assegnare ad esso una proprietà esclusiva (“Questo è il mio primo ombrello, l’ho comprato quel giorno di settembre a Edimburgo 12 minuti dopo che si è messo a piovere”, esempio indicativo, n.d.r.): l’attaccamento agli oggetti è una ragione di vita. Troppo spesso ne è il senso.

Lo spettacolo – progetto, come ovvio, che può avere ogni tipo di durata – procede agile molleggiandosi sulla propria semplicità e mettendo bene in risalto la potenza scenica (in questo caso comica) degli oggetti. Il sapore clownesco della performance (dalla mise in mutande e copricapo bicorno al sudore forsennato, i corpi non si risparmiano) e dell’impianto generale ci fa ingoiare facilmente lunghe durate di silenzi e mimica. 

Simone Nebbia – Indi-Tendente Collettivo Alternato

Lo spettacolo ideato da Davide D’Antonio e Roberto Capaldo è molto divertente, il loro un gioco a perdere e a perdersi, fin dall’inizio: cercano un dialogo fisico ed emotivo con chi guarda, cercano di tirare il pubblico dentro lo spettacolo, rubandogli oggetti, costringendoli all’interazione. Punti cardinali sono proprio gli oggetti, con i quali poter dialogare e inventare, in gioco è il loro possesso e il loro utilizzo a fini di scambio, così come la loro naturale distruzione. Perché gli oggetti hanno uno strano equilibrio, servono fino al punto di non servire più. 

Alessandro Paesano – Teatro.org

Joy di Davide D’antonio e Roberto Capaldo,  è un divertissement, una declinazione della perfoming art, atta a dissolvere le certezze del nostro esistere basate sull’acquisizione dei beni materiali che vengono indagati nella loro duplicità di possesso come compensazione e status symbol, e la loro intrinseca inutilità.
In un agglomerato di oggetti, sedie, giocattoli, delimitate da una striscia di diodi blu, mentre un display luminoso ricorda, a loop, che un corpo umano di 75 kg contiene 45 kg d’acqua, calcio per imbiancare un pollaio, ferro per un chiodo di 5 cm, grasso per 70 saponette, fosforo per 2500 fiammiferi, carbonio per 900 matite e un cucchiaio di magnesio. Intanto, nel mucchio di oggetti accatastati un uomo sembra dare il via allo spettacolo con il fare di chi si appresta a vendere un prodotto in una fiera campionaria ma poi, messo mano al microfono vi rinuncia a parlarvi dentro e inizia a interagire col pubblico chiedendo  cose all’orecchio mentre gli interpellati reagiscono in vario modo… 

Si tratta di collezionare vari oggetti (stasera parliamo di cose vostre). In cambio ottengono delle sedie (si sta assiepati in piedi o seduti per terra ad assistere alla performance). Intanto un secondo uomo, nascosto all’interno di un cubo di plastica, rivela la sua presenza azionando il motore di un frullatore tradendo così una vocazione luddista che lo portano a voler distruggere gli oggetti sia quelli già accatastati sia quelli che collezionano entrambi dal pubblico, ne nasce una competizione, una  lotta per il possesso (e la distruzione) degli oggetti. Intanto il primo che sottrae gli oggetti alle mire distruttive del secondo adducendo motivi di valore affettivo, alterna telefonate con la madre che lo tempesta delle classiche raccomandazioni mammesche a conversazioni con l’Istituto di Astrofisica Bohr di Copenaghen al quale ha fatto una domanda:  come mai la massa dell’universo può decidere se questo si espande all’infinito o invero torna a comprimersi in un nuovo big bang mentre per noi l’accumulo di oggetti  è segno di felicità?


Questa a grandi linee la struttura di una performance la cui linea drammaturgica è ottenuta attraverso il metodo della composizione istantanea che alterna a momenti  chiaramente prestabiliti altri di improvvisazione in base al luogo e alla reazione dei presenti che i due interpreti/performer sanno condurre e prendere spunto con celata maestria. Uno spettacolo ludico, divertente, di partecipazione collettiva, perfetto per luoghi non canonici di rappresentazione quali il foyer del teatro (o il sovrappasso Atac dove doveva svolgersi in un primo momento).

Il pubblico partecipa, divertito prestando oggetti più o meno personali (borse, soprabiti, cellulari, ombrelli) con insolita accondiscendenza. Per la durata della performance gli spettatori vivono liberi dalla schiavitù degli oggetti, mentre il display ricorda che piuttosto che tornare polvere potremmo a nostra volta essere degli oggetti, peccato che conclusasi la performance tutti si avventano a riprendersi il maltolto e lo status quo venga così  ristabilito…